Parliamo di disabilità in continuazione e ora pensiamo sia arrivato il momento di assumerci la responsabilità di definire una volta per tutte il significato del lemma disabilità sulle pagine di un giornale. Questo nella speranza di fornire una definizione che venga accolta nei dizionari, dove è diffusa una disconoscenza, un’arretratezza, da superare.
Partiamo dall’etimologia del termine disabilità. Il vocabolo è costituito dal prefisso dis- seguito dal termine abilità. Il prefisso dis- introduce un concetto negativizzante rispetto al sostantivo che gli succede: disconosciuto, disconosciuto, disinibito e via dicendo. In origine, dunque, il termine disabilità nasce per indicare qualcosa di divergente rispetto al concetto di abilità.
Lo stesso paradigma si applica al corrispondente inglese, da prendere prevalentemente in considerazione poiché i moderni concetti sulla disabilità prendono vita in ambito anglosassone, segnatamente negli Stati Uniti. Bisogna perciò rilevare che secondo il dizionario etimologico inglese on-line, il termine disabilità proverrebbe dal 1570 e si intenderebbe come «mancanza di potere, forza o abilità» (“want of power, strength, or ability” from dis- + ability). Secondo la stessa fonte, nel 1640 il vocabolo assume la forma di «incapacity in the eyes of the law», letteralmente si traduce in «incapacità negli occhi della legge», che ricondurrebbe a incapace di intendere e volere.
Per incontrare il termine in un’accezione molto vicina a quella di oggi dobbiamo arrivare al 1980, con il documento dell’Organizzazione mondiale della sanità chiamato Icidh-80 (international classification of pairments, disabilities and handicaps – classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicaps). Va detto che il termine disabile aveva fatto la sua comparsa nel 1975 con la dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili, ma è nel 1980 che la disabilità viene definita compiutamente in un documento internazionale di classificazione. E qui il vocabolo si veste di un significato che può essere considerato come segue: limitazione dell’agire umano rispetto a uno standard in conseguenza di una menomazione e in grado di dare luogo all’handicap, ovvero a uno svantaggio sociale (vedi Intervista col disabile, Minnie Luongo, Antonio Giuseppe Malafarina, Franco Angeli, 2007, cap 1).
In questo periodo la disabilità è un qualcosa che riguarda strettamente la salute del soggetto, cioè l’approccio alla questione disabilità è di tipo sanitario. La disabilità dipende da una menomazione e produce handicap in maniera sequenziale. Ed è questo che rappresenta uno dei maggiori limiti di questa visione, ovvero che tutto debba essere consequenziale: prima la menomazione, intesa come anomalia fisica o psichica, quindi eventualmente la disabilità, concepita come inattitudine rispetto a un modello, e infine il probabile svantaggio rispetto alla società che ne conseguirebbe, definito handicap (per i filologi segnalo che la fonte bibliografica è la stessa).
La svolta avviene nel 2001, sempre a cura dell’Organizzazione mondiale della sanità, con l’Icf (international classification of functioning, disability and health – classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e salute). Qui cambia l’approccio, cioè si passa dal modello medico a quello biopsicosociale, «spostando il focus dalla visione riduttiva della disabilità come meramente legata alla menomazione fisica o psichica ai bisogni dell’ambiente della persona», sostiene la dottoressa Matilde Leonardi. Con l’Icf si inizia a considerare decisamente la persona con le proprie condizioni di salute in rapporto all’ambiente. Là dove per ambiente si intende il contesto attorno alla persona. Sono ambiente fattori come: l’ambito sociale, culturale, economico, fisico, tecnologico e via dicendo.
La stessa Matilde Leonardi, dottoressa e ricercatrice dell’istituto neurologico Besta di Milano che dal 1995 fa parte del gruppo di ricerca dell’Oms che ha dato luogo all’Icf e ha portato il documento in quasi tutto il mondo, definisce così la disabilità: «Rapporto sfavorevole fra una persona con le sue condizioni di salute e ambiente». Da cui consegue che «ogni persona in qualunque momento della vita, può avere una condizione di salute che in un contesto sfavorevole diventa disabilità». Ne abbiamo parlato nell’intervista per questo blog intitolata La classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (Icf), un documento che ha cambiato il mondo. Per quelli che sdegnano la citazione di siti, fare riferimento al menzionato Intervista col disabile.
Ma che la disabilità sia legata al rapporto fra persona e ambiente emerge anche dal maggior documento sui diritti delle persone con disabilità nel mondo (in Italia legge 18/09): la convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, del 2006. Nel suo preambolo si afferma che «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
La convenzione è un documento di impronta politica, ovvero che ha fatto i conti con i punti di vista dei diversi Stati dell’Organizzazione, dunque non spaventi il fornito giro di parole che se ben letto non porta altro che al ritorno del concetto dell’Oms: rapporto persona con proprie condizioni di salute e contesto.
La disabilità, quindi, che cos’è? Innanzitutto è un concetto in evoluzione, come pure sostiene la citata convenzione nel suddetto preambolo. Attualmente è un rapporto. Un rapporto sfavorevole fra persona con le sue condizioni di salute e ambiente circostante. Da questo consegue che il prefisso dis- non deve trarci in inganno. Non deve spaventarci la forma rispetto al contenuto. Come la berlina era una carrozza un tempo mentre oggi è un’automobile, così prima la disabilità era qualcosa che deviava dall’abilità mentre ora consiste in un rapporto. I puristi della lingua direbbero che a parità di significante è cambiato il significato. Il significante è il termine, il significato è il contenuto cui il termine si riferisce. È successo qualcosa di analogo a quando si ristruttura un vecchio palazzo: l’esterno rimane uguale e l’interno viene totalmente ammodernato.
Mi accingo a concludere ma tutto questo era necessario per avvalorare l’istanza di un cambiamento della definizione del termine disabilità contenuto nei dizionari finanche in maniera discordante.
La disabilità, a voce di Matilde Leonardi, a seguito dell’analisi della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute e della convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, pertanto in conseguenza di dichiarazioni di Organizzazione mondiale della sanità e Organizzazione delle Nazioni Unite, deve essere definita così: «La disabilità è un concetto in evoluzione e oggigiorno concerne il rapporto sfavorevole fra persona con le proprie condizioni di salute e ambiente».
La disabilità, ricorda lo studioso del linguaggio della disabilità Claudio Arrigoni, può essere temporanea o permanente, ovvero riguardare il soggetto per un breve lasso della sua esistenza o durevolmente. E l’affermazione proviene proprio dalla considerazione della Leonardi che «ogni persona in qualunque momento della vita, può avere una condizione di salute che in un contesto sfavorevole diventa disabilità».
La disabilità può riguardare tutti, pertanto. E riguarda tutti, effettivamente, poiché se risiede nel rapporto persona ambiente e dell’ambiente fa parte la comunità, ne consegue che ogni essere umano è coinvolto nel processo disabilità. Chi in quanto persona con disabilità propriamente detta, chi elemento della società su cui ricade la responsabilità di modellare un ambiente favorevole attorno alla persona.
Mantenendo gli occhi aperti sull’evoluzione del concetto, noi tutti di InVisibili speriamo di trovare presto questa definizione nei vocabolari. Senza pregiudizi verso il prefisso dis- e dediti a sostenere una cultura che idealmente rimuova il prefisso dis- dal termine disabilità per una cultura delle abilità. Un ambiente, cioè, dove non ci siano preconcetti verso le abilità degli altri.
(invisibili.corriere.it)